Procrastinare comporta costi importanti per il benessere della persona. Spesso chi tende a rimandare sperimenta un disagio emotivo di tipo ansioso, forte preoccupazione, insonnia, sintomi che coinvolgono il sistema immunitario, complicazioni nelle relazioni personali o sul lavoro.
Gli studenti lo fanno spessissimo: rimandano sempre qualcosa al giorno dopo o alla settimana dopo. E le mamme sanno benissimo quanto costi (a tutta la famiglia, a volte) il continuo rimandare dei figli per poi fare le cose all’ultimo momento.
Tuttavia, non solo gli studenti rimandano. Lo fanno anche gli adulti. Molte persone rimandano quasi deliberatamente sostenendo di avere migliori risultati quando sono sotto pressione. Altri invece rimandano in modo passivo o inconsapevole attraverso forme subdole di autosabotaggio. In entrambi i casi è evidente una buona dose di autoinganno o scarsa consapevolezza.
È possibile affermare che se rimandiamo solo saltuariamente, o solo in un periodo della vita (ad esempio l’adolescenza/la giovane età adulta) oppure solo entro un certo ambito della vita e in certi giorni, possiamo stare tranquilli: siamo semplicemente umani.
Invece, se il rimandare si manifesta in modo cronico, possiamo iniziare a parlare di un problema ben più complesso che ha a che fare, secondo alcune recenti ricerche, con la regolazione emotiva, la motivazione e le abilità di autocontrollo e l’ impulsività.
Molti studi scientifici, infatti, si sono interessati a questo comportamento problematico, pertanto oggi sappiamo che, a livello globale, tra le persone che rimandano gli impegni, ben il 17% di essi lo fa in modo disadattativo con numerose ricadute sul benessere psicofisico dell’individuo, sul suo stato finanziario e perfino con un certo impatto sulla società in cui vive.
Ma cosa stiamo facendo veramente quando rimandiamo le cose?
In italiano, in senso generale, l’azione di rimandare al futuro ciò che dovrebbe essere fatto entro una precisa scadenza si dice procrastinare e il comportamento si chiama procrastinazione. In psicologia con il termine procrastinazione ci si riferisce al ritardo volontario ma irrazionale di un determinato piano d’azione (S. Zhang 2019).
La psicologia per molti anni ha tentato di spiegare la procrastinazione attraverso numerose teorie di personalità (indicando la personalità narcisista) o ha cercato di descrivere la persona che tende a rimandare (indicando ad esempio il perfezionista) senza tuttavia aggiungere molto alla comprensione del processo.
Solo recentemente, invece, con le neuroscienze, c’è stata una accelerazione negli studi che hanno cominciato a prendere molto seriamente questo comportamento umano.
In particolare, il gruppo di Zhang Shunmin dell’università del Southwest (Cina) ha esplorato i substrati neurali della procrastinazione e messo insieme due contrastanti teorie psicologiche, una che si occupa della regolazione emotiva e l’altra della motivazione per spiegare perché le persone rimandano ciò che devono fare fino al momento in cui non potranno fare a meno di farlo.
Ne emergono spunti interessanti. Sembrerebbe infatti che mentre rimandiamo di fare qualcosa (ciò che dobbiamo/non vogliamo fare) stiamo cercando di regolare l’avversione per il compito stesso. Tuttavia procrastinando, lo facciamo in un modo non efficace e anzi del tutto fallimentare.
Infatti, sebbene i vantaggi di evitare i compiti superino nell’immediato i benefici della realizzazione del compito o del raggiungimento dell’obiettivo, questo processo non migliora il nostro rapporto con la situazione a venire. Quello che facciamo, quindi, è spostare l’attenzione altrove, cioè lì dove è più piacevole stare. La motivazione ad agire arriverebbe, in certi casi se non ci sono altri problemi di natura psicopatologica, man mano che l’evento si avvicina, poiché minore è la sua distanza nel tempo, maggiore o più realistica è la percezione del suo impatto sulla nostra vita (teoria della attualizzazione temporale).
L’aspetto ancora più interessante degli studi di Zhang sulla procrastinazione è la scoperta che una piccola parte del nostro cervello chiamata giro paraippocampale, coinvolto nella memoria episodica, particolarmente collegato con tutte le strutture cerebrali che si occupano delle nostre emozioni (strutture limbiche) può funzionare differentemente da persona a persona. In alcuni, questa parte del cervello, che di norma è deputata a occuparsi del pensiero episodico futuro e della memoria, sembra lavorare con le altre strutture limbiche per amplificare i segnali di avversione verso un certo evento: essa invia qualcosa di simile ad un allarme riguardo ciò che sta per accadere, fosse anche solo il semplice mettersi seduti a studiare.
Sembrerebbe quindi che nelle persone che non procrastinano in modo cronico, il cervello invii meno segnali di allarme rispetto alla spiacevolezza della situazione – la quale, per ciascuno, sarà generata dal momento della vita, dalle aspettative, dal significato specifico di quell’esperienza.
Al contrario nelle persone che rimandano in modo cronico, l’esperienza di avvicinarsi o prepararsi a un dato evento sarà caratterizzata da un vissuto denso di spiacevolezza e allarme.
Tornando all’esperienza degli studenti, e chi ha ancora il ricordo degli anni scolastici lo sa, per una parte di essi la preparazione di un esame o di una interrogazione è una attività che di frequente viene rimandata (per la capacità organizzativa che richiede lo studio, le difficoltà di non riuscire sempre a capire, le precedenti esperienze di insuccesso). Spesso infatti non è raro che essi si ritrovino a concentrare un intero esame negli ultimi 7/10 giorni prima della data stabilita o a studiare per una interrogazione la sera prima.
Gli studenti del resto hanno diverse bellissime alternative alla fatica dello studio e oggi la tecnologia a portata di mano permette uno spostamento dell’attenzione molto facile e meno consapevole, che migliora la stato emotivo momentaneamente, mantenendo sullo sfondo uno scenario inquietante.
Cosa puoi fare per non vivere sempre ritardo?
Così, se è chiaro che la procrastinazione è un tentativo fallimentare di regolazione emotiva, non resta che ascoltare ciò che suggerisce un approccio mindful.
Occorre infatti fare i conti direttamente con l’avversione per l’attività che stiamo rimandando. Non si tratta di effettuare una rivalutazione della situazione, concentrandosi sugli aspetti positivi che seguiranno, seppur lontani.
Si tratta, invece, semplicemente di imparare a promuovere un’attenzione gentile verso l’esperienza in corso, momento dopo momento, constatando le sensazioni fisiche nel corpo, come sono fatte, senza giudicarle.
Facendo ciò che sembra una vera e propria sfida, cioè focalizzarsi sulle sensazioni, una per volta, che accompagnano gli stati d’animo negativi, inizia a spezzarsi quella catena dei pensieri che elabora la situazione, giudicandola, categorizzandola e suscitando nuove emozioni negative, nuova avversione e rinnovato allarme.
Nel tempo, allenarsi in questo esercizio, permetterà di lasciar andare le valutazioni negative degli eventi passati e consentirà di stare anche con ciò che non ci piace fare senza rimandarlo.
Bibliografia:
- “To do it now or later: The cognitive mechanisms and neural substrates underlying procrastination.” (Zhang S., Liu P., Feng T.) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30638308
- “The neural basis underlying procrastination: a large-scale study of brain networks” ( T. SU, Y. GUO, Z. CHEN, S. ZHANG, X. HUANG*, T. FENG)
http://engine.scichina.com/publisher/scp/journal/SSV/49/1/10.1360/N052018-00158?slug=fulltext